Matti dalle Gare.

È appena uscito il Manuale della Buona Gara, una guida di 48 pagine a cura delle tre più importanti associazioni di settore: Assocom e Unicom (oggi convogliate in UNA) per le agenzie di comunicazione, e UPA per i Clienti.

Le gare, definite anche pitch creativi, rappresentano per il nostro ambiente un argomento spinoso da molto tempo.
Ognuno ha il suo punto di vista, ognuno ha in mente le sue soluzioni ideali.
Io stesso ne ho dibattuto a lungo con Massimo Guastini, uno dei pochi creativi pubblicitari con cui vado d’accordo, ma abbiamo sempre avuto opinioni divergenti in merito, specie sull’argomento rimborso spese.
Massimo ritiene che il rimborso spese sia un deterrente necessario e crede che non bisognerebbe partecipare alle gare che non lo prevedono.
Io, al contrario, penso che il rimborso spese sia un palliativo: non ripaga mai lo sforzo economico affrontato dall’agenzia per la gara (è sempre troppo modesto) e non rappresenta affatto una garanzia di serietà (ho visto troppe gare in cui il rimborso è stato sfruttato dal Direttore Marketing come alibi per avallare scelte che aveva preso in precedenza).
Scegliete pure il punto di vista che preferite tra il mio e quello di Massimo.

A prescindere dalle valutazioni sul rimborso spese, sono convinto di una cosa: un cliente ha tutto il diritto di indire una gara e gestirla come meglio crede.
D’altronde succede lo stesso in ogni altro ambito consulenziale.
In compenso, anche l’agenzia ha i suoi diritti.
In particolar modo ne ha uno, importante e inalienabile: non parteciparvi.
Sono anni che sento lamentele di autocommiserazione sulle gare, insopportabili anche per un ligure come me che di mugugno se ne intende, quando la soluzione è semplice: non vi convince la gara a cui vi hanno invitato? Non fatela.
Punto.

Il post potrebbe concludersi qui: siamo nel campo della libera impresa, ogni imprenditore privato è libero di prendere le proprie decisioni autonomamente, ma poi ne risponde ai soci o al mercato piuttosto che lamentarsi.
Ad ogni modo provo a dare un contributo attivo all’argomento, raccontandovi i criteri che uso per decidere se partecipare a una gara oppure no.
Magari può essere utile a qualcuno.

Premessa: sono un ex giocatore di Texas Hold’em (sì, il poker all’americana, e sì, tra le altre cose ho fatto pure questo) e per orientarmi nelle gare ho preso spunto dal ragionamento che i giocatori di un certo livello usano per decidere se fare una puntata su un piatto.
È un calcolo probabilistico che porta il nome di Pot Odds.

Le informazioni irrinunciabili per partecipare a una gara, almeno per me, sono: il budget, il numero delle agenzie partecipanti e quali sono queste agenzie.
Il budget rappresenta la grandezza del piatto, mentre i nomi dei partecipanti servono per definire le probabilità di vittoria. Se le agenzie invitate sono 4, ad esempio, le probabilità di ognuna di esse equivalgono al 25%; se invece sono 10 risultano essere appena il 10%.
Conoscere l’identità delle altre agenzie è importante per correggere il tiro sulle probabilità. Le agenzie uscenti possono avere percentuali inferiori o maggiori a secondo del tipo di gara da affrontare (ci sono gare indette dal cliente perché è insoddisfatto del servizio dell’agenzia uscente, e altre che deve fare per policy interna o solo per limare ulteriormente i costi).
E poi ci sono delle agenzie concorrenti particolarmente portate per le speculative, mentre altre che non vincono una gara nemmeno se partecipano da sole.
In ogni Pitch Creativo, inoltre, c’è sempre almeno un’agenzia favorita e una underdog.

Una precisazione: è ovvio che non sto parlando di un calcolo matematico esatto, come succede invece nel Texas Hold’em, ma sto parlando piuttosto di stime. Nonostante questo, fermarsi a ragionare sulle probabilità che si hanno in una gara invece di entusiasmarsi e illudersi che il budget sia vinto prima ancora di ricevere il brief, è una cosa molto saggia.
È molto stupido invece cedere alla vanità del “tanto la vinciamo noi!”.

Una volta che si sono definite più o meno le probabilità di vittoria, bisogna concentrarsi su quanto si può vincere, che non è mai il budget ma piuttosto il margine netto che si stima di guadagnare.
Poi si moltiplica il margine netto per le probabilità.
Ecco un esempio semplice.
Dopo aver escluso tutti i costi esterni e quelli di produzione, si stima che l’agenzia potrebbe guadagnare 100.000 euro dall’acquisizione di quel cliente; siccome le agenzie in gara sono 4 e tutte sono allo stesso livello, le proprie probabilità di vittoria sono al 25%.
100.000 x 25% = 25.000 euro.
Non è finita qui, perché a questo punto va calcolato l’effort, ovvero l’impegno economico che l’agenzia deve affrontare per partecipare a quella gara.
Traduzione: ore di lavoro, produzione di materiali creativi (storyboards, rubamatic, stampe), freelance, consulenze esterne, eccetera…
Mettiamo che queste spese ammontino a circa 10.000 euro.
25.000 – 10.000 = Pot Odds.

Non ci vuole un genio per comprendere che se le Pot Odds sono negative, partecipare a una gara rappresenta una scelta anti-economica, ma anche se sono basse conviene concentrare le proprie energie sui clienti attuali, sia per trattenerli sia per fare cross-selling.
Questo perché, al contrario del giocatore di Texas Hold’em che una volta che ha vinto il piatto non deve fare altro, un’agenzia dopo essersi aggiudicata la gara deve produrre lavoro e impegno fino alla scadenza del contratto.
È altrettanto logico che più le Pot Odds sono elevate e più conviene partecipare a una gara.
Non è un caso che le gare importanti, dove si può fare un buon margine, sono quasi sempre convenienti, mentre quelle piccole e con tanti partecipanti sono spesso un suicidio di massa.
Per questo motivo, in tutti questi anni, noi di ET abbiamo partecipato a diverse gare importanti anche se eravamo gli underdog, mentre abbiamo rinunciato a gare piccole e sovraffollate anche se potevamo essere considerati tra i favoriti.

Anticipo coloro che accuseranno il mio metodo di approssimazione.
Ho la consapevolezza che non sia un metodo scientifico, ma sono altrettanto convinto che è utile per farsi un’idea sulle scelte da prendere.
Forse non immaginate quanti manager non facciano neppure questi semplicissimi calcoli di convenienza prima di partecipare a una gara.
Per quale motivo?
Semplice. Perché il nostro settore, poche eccezioni a parte, ha una classe manageriale piuttosto improvvisata, ma soprattutto perché i costi delle gare le agenzie li fanno pagare ai clienti già in roster, ai dipendenti oppure ai free-lance.
Rifletteteci.
Quanto tempo viene tolto dalle agenzie al day by day per partecipare a gare sanguinose?
Quanti notti o week end vengono richieste ai dipendenti per chiudere speculative inutili?
Quante volte viene imposto ai freelance di ragionare in termini di bonus/malus (significa: se la perdiamo non prendi niente, ma se la vinciamo… ah, se la vinciamo…)?

Non sono uno sprovveduto: so bene che oggi i Pitch Creativi hanno raggiunto livelli critici. Ricordo che vent’anni fa, quando si faceva una gara, vinceva sempre il progetto creativo più originale, poi è diventato quello più giusto (nel senso che bisognava interpretare quello che aveva esattamente in mente il cliente), mentre con l’avvento degli uffici acquisti ha cominciato a vincere l’offerta economica più bassa (specie nelle gare social media).
Sono d’accordo sul fatto che per quanto riguarda le gare, ci sono problemi sempre più urgenti che riguardano il passaggio di informazioni, la correttezza e la trasparenza.
Ma so anche che gran parte della colpa è delle agenzie. Specie di quelle più grandi che anni fa avrebbero dovuto gestire meglio il mercato, resistendo alle incursioni dei clienti e che invece, inseguendo la chimera di obiettivi sempre più a breve termine, si sono fatte la guerra a colpa di deregolamentazioni e dumping.

In questo folle scenario che avrebbe urgente bisogno di riscrivere le proprie regole, le associazioni di settore, le uniche che queste regole potrebbero scriverle, cosa fanno?
Il Manuale delle Giovani Marmotte.
Ora, non pretendo che tutti abbiano la sensibilità di un copywriter, ma è evidente che in un settore competitivo come il nostro che mutua i suoi termini dal linguaggio guerresco (target, obiettivo, campagne…) un titolo retorico ed evanescente come la Buona Gara risulta alquanto distonico e inefficace.
Il problema più grande però è il contenuto: un manuale a fumetti, con uno stile e un tono che ricorda i vecchi opuscoli di educazione sessuale delle medie (li definisco vecchi opuscoli perché se provi a far leggere una cosa del genere a un millennial questo ti ride in faccia).

Cito alcune frasi per spiegare meglio quello che intendo.
“Bisogna riconoscere che le gare non sono tutte uguali…”
“Prima di decidere di cambiare Agenzia, è importante capire quali siano i problemi con quella attuale. Perché non si è contenti della relazione?”
“Non tutte le gare sono adatte a tutte le Agenzie. E non tutti i momenti sono adatti per prendere in carico una (o una ulteriore) gara. Nessuno conosce l’Agenzia e le sue potenzialità meglio dell’Agenzia stessa”.
“È bello guardarsi negli occhi”.
“La partecipazione non deve essere data per scontata: non si fa brutta figura a rinunciare a una gara se non ci si sente di essere nelle condizioni di farla”
“Arriva preparato: un documento e una esposizione ben calibrati sono indice di serietà, professionalità e rispetto”.
“Auto-analisi per avere piena consapevolezza di sé”.
“A volte non è l’unica soluzione possibile. È bello avere alternative”
.

Mi dispiace ferire la sensibilità di coloro che immagino abbiano messo impegno per scrivere un manuale di 48 pagine, ma credo che la credibilità della nostra professione passa anche attraverso la capacità di evitare approcci naif, specie quando uno strumento del genere si rivolge a imprenditori della comunicazione, a direttori marketing e a responsabili di aziende. E cioè a persone che dovrebbero avere un livello culturale molto più alto di così.
Ripeto: apprezzo le buone intenzioni ma i contenuti e lo stile con cui è stato scritto il Manuale della Buona Gara offendono la mia intelligenza, e chissà quella di quanti altri.
Espressioni come “la Buona Gara”, “non avere paura di fare brutta figura”, “è bello guardarsi negli occhi…” sono cose che potevo accettare di leggere all’oratorio in età pre-adolescenziale.

Ok. Siccome in questo periodo sto lavorando per migliorare il mio pessimo carattere, concludo la parte critica e provo a dare un consiglio costruttivo: perché il Manuale della Buona Gara non lo lasciate nel cassetto che avete suggerito ai vostri associati e fate qualcosa di veramente buono introducendo delle regole?
Lo so: non è facile far rispettare delle regole a degli associati, ma voi provateci lo stesso, altrimenti cosa ci stare a fare?
Se invece credete che non si possano condividere regole e comportamenti virtuosi perché equivarrebbe a fare cartello, perché non promuovete l’utilizzo degli Advisors?
Nel resto del mondo sono figure professionali riconosciute, perché qui in Italia fanno ancora così tanta fatica a imporsi?
E per dimostrare che sono Buono anch’io mi spendo addirittura in un terzo consiglio, gratuito e ancora più facile da accogliere: perché non tornate al vecchio metodo introdotto da Peter Grosser in Assocomunicazione nel 2006 (quello delle Schede di Valutazione della Gara)? D’altronde è l’unica cosa che ha funzionato, discretamente, almeno per qualche anno.

Per chi non sapesse di cosa sto parlando.
Dal 2006 al 2012 circa, Assocomunicazione ha monitorato le gare tramite la compilazione da parte dei suoi associati delle Schede di Valutazione.
Nello specifico: quando un’agenzia associata veniva invitata a una gara, doveva compilare una Scheda di Valutazione che racchiudeva quattro informazioni principali: numero di agenzie invitate, nomi delle agenzie, tempo per lo sviluppo delle proposte creative, presenza o meno di un rimborso spese.
Ecco un’intervista del 2012 fatta da Monica Lazzarotto di YouMark a Peter Grosser.
Vi invito a guardarla perché è molto interessante: oltre a spiegare il sistema delle Schede di Valutazione, permette di comprendere come i problemi alla fine siano sempre gli stessi e come le agenzie abbiano responsabilità molto evidenti.

Non c’è niente di male a tornare indietro.
E non c’è niente di male a riprendere il monitoraggio delle gare se è l’unica cosa che in qualche modo ha funzionato, anche se richiede un grande sforzo da parte delle associazioni, perché far rispettare dei comportamenti virtuosi ai propri associati è difficile.
Non c’è niente di buono, invece, nel pubblicare un Manuale Omeopatico e sentirsi a posto.
Specie se questo manuale ha contenuti modesti.
Ecco, dicendola tutta, forse l’unica cosa a cui potrebbe servire questo manuale sarebbe quello di indire una Buona Gara tra gli associati per trovare qualcuno che lo riscriva con uno stile adeguato e contenuti molto più interessanti.

Comments (4)

  1. Se non altro, la pubblicazione del Manuale della La Buona Gara è servito a farti scrivere questo bellissimo pezzo.

  2. condivido tutto, e aggiungo che -essendo che la gara la indice sempre un’azienda e se lo fa è perchè vorrebbe avere più visioni- se fossi un’azienda mi guarderei intorno e valuterei il panorama delle soluzioni on air delle altre aziende cercando di capire che teste ci siano dietro a certi spot. Quelli che trovassi piacevoli e comprensibili (che non è detto lo siano sempre) andrei a vedere chi è l’agenzia e la convocherei dandogli l’incarico inserendo qualche precauzione. Per il resto le tue osservazioni mi trovano concorde.

  3. Ah se solo troverebbi un scrittorio che scrive cose interesanti! Allora che mi sta bene che si! Altro che adesso che non mi sta bene che no!

  4. Hans Suter

    uno che scrive una pappardella così sterminata ha una gran voglia di lavorare gratis, ottima condizione per partecipare spesso a gare

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