Darwin, l’etica e i buoni propositi.

Nell’ultimo mese del 2014 due episodi hanno definito lo stato del nostro settore. Il primo è la presentazione del Digital Business Game di Mercedes, cioè il pitch-show con cui il brand intende trovare la nuova agenzia digital e sul quale Massimo Guastini si è espresso molto criticamente. Il secondo è la vicenda di Riccardo Pagani, il creativo che ha fatto causa alla sua ex agenzia perché gli venga riconosciuta la paternità della pluripremiata campagna Fiat 500, questione sulla quale il tribunale di Torino si è già espresso dando un’interpretazione nuova e originale sul diritto d’autore.

Delle rivendicazioni di Riccardo Pagani ho scritto il 15 dicembre, nel post “Siamo creativi o caporali”, ma domani ci sarà la sentenza d’appello. Se l’esito del primo grado dovesse essere confermato, verrebbe a crearsi un precedente che afferma che i creativi non sono autori delle idee che esprimono.

Del Digital Game di Mercedes si è parlato molto di più, sia sui social network sia sulle riviste di settore, e oltre al presidente dell’ADCI hanno partecipato al dibattito Emanuele Nenna, vice presidente AssoComunicazione, e Giovanna Maggioni, direttore generale UPA.

Premetto che a mio parere le due vicende sono più legate di quello che appare, ma parto analizzando la prima: il pitch-show Mercedes. La posizione più dura è quella di Guastini che da anni si batte affinché le aziende riconoscano alle agenzie un rimborso spese di 5.000 euro sulle speculative. Più ecumeniche e attendiste le dichiarazioni degli altri due rappresentanti di categoria, Nenna e Maggioni, che più o meno dicono la stessa cosa: quella di Mercedes non è una pratica che suggerirebbero, ma prima di stigmatizzare bisogna aspettare gli sviluppi.

Conosco Massimo, i suoi princìpi sulle gare creative e la coerenza con cui li persegue: secondo lui le gare non retribuite sono responsabili della maggior parte del lavoro inutile delle agenzie e, di conseguenza, degli straordinari non pagati ai creativi e della cattiva e scarsa remunerazione del personale. So per certo che con la sua agenzia si rifiuta da anni di partecipare a gare non remunerate e che vorrebbe che tutti facessero lo stesso. Il ragionamento è lecito e gli fa onore, ma dal mio punto di vista il rimborso spese sulle gare è un deterrente debole che non risolve i problemi che stanno alla base della crisi del settore (crisi che esula dall’attuale crisi economica del paese).

Perché il rimborso spese è inutile?

Perché alla sicurezza del rimborso sono preferibili altre garanzie: come la trasparenza o la serenità di sapere che il pitch è organizzato al meglio e giudicato da professionisti competenti. Ma, soprattutto, perché sulla richiesta dei rimborsi spese c’è un vizio di fondo: chi è che decide la liceità del rimborso e chi ne decide l’equa entità? Possiamo cioè richiedere alle aziende un comportamento virtuoso solo facendo appello al loro senso etico? E chi lo definisce questo senso etico? Inoltre possiamo pretendere dai brand un comportamento virtuoso se poi agenzie e creativi non lo sono altrettanto con le aziende? O, addirittura, non lo sono fra di loro?

Il punto è questo: sentiamo il bisogno di parlare di etica ma in realtà non ci sono mai state regole nel nostro settore. L’etica e le regole sono demandate da sempre alla nostra coscienza individuale d’imprenditori e di creativi. E finché non ci saranno regole condivise da tutti (tra creativi, agenzie e aziende) casi come quello di Mercedes e quello di Pagani si ripeteranno.

È interessante la soluzione che hanno adottato i francesi per le gare, quella che Andrea Stillacci ha raccontato qui: una Carta condivisa da aziende e agenzie che cerca di regolare il rapporto tra le parti. Però stiamo parlando della Francia, un paese più civile del nostro e regolato meglio anche nelle altre problematiche del settore, come ad esempio la retribuzione delle agenzie e dei creativi (da loro uno stagista prende quanto un junior in Italia ndr). Quindi il modello non può essere imitato. Da noi le regole vanno scritte dall’inizio e non possono limitarsi a quelle delle gare.

Dagli anni ‘90, da quando i reparti media sono usciti dalle agenzie, non si è trovato un equo sistema di retribuzione. Allora le agenzie italiane godevano di un comodo 15% di fee sugli investimenti media e, quindi, potevano permettersi di pagare dignitosamente i propri dipendenti. Inoltre i network non erano avidi come lo sono oggi e i profitti non erano spediti all’estero o divorati dagli azionisti oltre Manica o oltre Oceano, ma erano piuttosto reinvestiti in risorse interne e in innovazione. Dopo trent’anni non si è ancora trovato un sistema di retribuzione sostitutivo, e da questa cruciale mancanza deriva la maggior parte dei problemi d’impoverimento economico e di scadimento qualitativo del Sistema Pubblicità Italia.

Ho letto che AssoCom ha messo nell’agenda del 2015 un dialogo più fitto con le aziende e il consolidamento del suo rapporto con UPA. Bene, ma dubito che una singola associazione possa riuscire nell’intento di mettere d’accordo tutti. Il primo motivo è evidente: se le regole che dovrebbero essere trovate coinvolgono agenzie, creativi e aziende, allora tutti gli attori coinvolti devono partecipare alla loro definizione.

Il motivo meno evidente, anche se nessuno può ammetterlo , è che le associazioni di settore subiscono ancora il potere dei grandi network. Perché sopravvivono in gran parte grazie alle quote associative o alle iscrizioni ai premi che le grandi agenzie versano. Il problema è che le regole di cui il settore dovrebbe dotarsi vanno in parte contro gli interessi dei network. E i network non hanno nessun interesse che esistano le regole. Sarebbe come illudersi che chi ha inquinato, e continua a inquinare attraverso remunerazioni al ribasso e sfruttamento dei dipendenti, possa sentire improvvisamente il bisogno di adottare delle norme igieniche per uno sviluppo sostenibile.

Ecco perché le singole associazioni non possono farcela singolarmente.

Nel 2014 con IF c’è stato l’inizio di una collaborazione tra ADCI e AssoCom. È stato forse l’evento più interessante e ottimista dell’anno, un segnale di come in un futuro prossimo si possano superare gli interessi esclusivamente speculativi delle singole associazioni e dei singoli associati.

Motivo per cui lancio una provocazione a Massimo Guastini ed Emanuele Nenna: perché il dialogo che avete iniziato a fare l’anno scorso sulla qualità creativa non può allargarsi alle regole di cui il settore ha bisogno? Perché non coinvolgete UPA? Perché non date vita al dibattito proprio durante le giornate del Festival, aprendo per la prima volta una discussione sulle regole condivise?

Ma ripeto: limitare la discussione ai rimborsi spese per le speculative sarebbe riduttivo, come pretendere di curare il cancro con l’aspirina.

E continuo la provocazione dettando un’ipotetica agenda. Ecco quelli che secondo me dovrebbero essere i buoni propositi del 2015.

La Remunerazione. Possibile che non si trovi un modo responsabile per remunerare equamente il lavoro delle agenzie? Naturalmente non si può istituire né un listino né un cartello, ma forse è giunto il momento di iniziare a ragionare secondo i costi orari. Le società di consulenza fanno così da tempo e le aziende non hanno mai avuto nulla da ridire. Lo stesso fanno le web agency. Certo, un cambiamento del genere richiederebbe un’organizzazione puntuale ed efficace da parte delle agenzie (elaborazione dei time sheet e il rispetto di determinati processi operativi) ma porterebbe innumerevoli vantaggi. Primo: evidenzierebbe il tempo reale necessario per sviluppare progetti e lavori a regola d’arte (oggi viviamo di continue urgenze che nel peggiore dei casi sono fittizie, e nel migliore sono il frutto di una cattiva organizzazione). Secondo: il costo orario potrebbe regolare la delicata e sempre celata questione degli straordinari non riconosciuti ai dipendenti. Terzo: sparirebbero da alcune agenzie le forme di remunerazione poco trasparenti come gli Over o i Diritti d’agenzia.

I Contratti di Lavoro. Da anni le agenzie, nella maggioranza dei casi le grandi ma anche alcune delle più piccole, sopravvivono grazie allo sfruttamento dei collaboratori e degli stagisti. Quanti stagisti lungo degenti ci sono ancora all’interno dei network? Cosa vogliamo farne? E quanti creativi hanno dovuto aprire una tanto bistrattata partita IVA per poi rispettare gli stessi doveri e gli stessi orari dei dipendenti? Non c’è bisogno di citare il Papa per ammettere che questo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è inaccettabile, basta fare appello al Jobs Act appena deliberato che dovrebbe decretare la fine di tutti i contratti anomali. Ma quanti di questi contratti anomali saranno convertiti in contratti a tempo indeterminato? Siamo uno dei settori con il più alto numero di precari. Ebbene, cosa succederà nel 2015? E chi monitorerà tutto questo? I contratti verranno regolarizzati o assisteremo all’ennesima mattanza degli irregolari?

Le Speculative. Più di un rimborso spese, auspico l’avvento degli Advisors e spero che saranno neutrali e onesti. Esistono già nel resto del mondo e funzionano bene. Come ho già spiegato il rimborso certifica la serietà dell’azienda appaltatrice, ma non è sufficiente. Se sono invitato a una gara, preferisco sapere quante altre agenzie sono coinvolte e quali (esempio: se ci fossero più agenzie dello stesso network io non parteciperei). E poi sarebbe bene che la selezione delle agenzie fosse fatta da figure competenti, che conoscano le caratteristiche delle singole agenzie. Non da chi invita il cugino, l’amico oppure quella sigla che faceva bellissime campagne tra il 1973 e il 1976. Sarebbe necessario inoltre che i brief fossero scritti in maniera scrupolosa, che non fossero generici o che non richiedessero obiettivi contraddittori. E che i termini di aggiudicazione fossero chiari, magari dopo un test seguito da un istituto di ricerca affidabile. E infine che i tempi per le elaborazioni delle proposte fossero uguali per tutti e che tutti potessero presentare alle persone che realmente decidono.

Il Rispetto per i Fornitori. Pretendiamo che le aziende ci trattino meglio, ma le agenzie come trattano i loro fornitori? Un settore sano rispetta tutta la filiera produttiva. E noi? Paghiamo i fornitori in tempi umani? Passiamo brief precisi a fotografi, illustratori e case di produzione? Non ci comportiamo con loro come i clienti si comportano con noi, con tempi, budget e rispetto sempre più stretti? E, soprattutto, come trattiamo i freelance, gli attori più fragili della filiera? Non pretendiamo da loro le stesse cose che i brand pretendono da noi nelle gare: “niente malus, ti pago solo se si vince?”

La Responsabilità e la Maturità dei creativi. I premi sono una cosa importante perché fotografano lo stato dell’arte e sono uno stimolo a migliorare la qualità della produzione creativa. Il problema è che, specie negli ultimi anni, sono stati spesso utilizzati dalla minoranza per fare carriera a discapito della maggioranza. Perché oggi i premi rappresentano anche il sostituto di una sana retribuzione (“vieni da noi, lavori 18 ore al giorno e ti paghiamo in ticket restaurants, però puoi vincere dei premi”). La passione è una cosa senza la quale non si può fare bene questo mestiere, certo, ma non può essere nemmeno sfruttata in maniera scientifica per sostituire un reparto creativo con un allevamento di polli da batteria. Se non fossimo a questo tragico punto la vicenda di Riccardo Pagani non sarebbe potuta accadere. Perché oggi, evidentemente, le agenzie ritengono possibile estromettere l’autore di una campagna e poi far leva sulla sua vanità personale (“dai le dimissioni e ti mettiamo nei credits), ma è anche vero che i colleghi giudicano normale e lecito subentrare nei credits.

Questi sono i buoni propositi che mi vengono in mente. Sicuramente potrebbero essercene altri, ma già questi pochi punti richiederebbero una comunione d’intenti eccezionale. E uno sforzo immane.

In sei anni di crisi sono andati persi migliaia di posti di lavoro e molte agenzie hanno chiuso oppure si sono ridotte drasticamente. Come insegna Darwin ogni evoluzione non premia i più buoni e altruisti, ma si basa piuttosto sulle singole capacità di adattamento: seleziona quindi i più intelligenti o i più furbi. E un settore che vuole basarsi su una sana competizione, e vuole crescere in maniera sana ed etica, deve riuscire a darsi delle regole che tutelino i primi dai secondi.

Questo è quello che a mio parere andrebbe fatto nel 2015. E andrebbe fatto con feroce determinazione e grande urgenza. Altrimenti rimane solo da affidarsi all’etica individuale. Ma siete liberi di pensarla diversamente.

Anzi, liberi tutti.

 

 

 

 

Comments (4)

  1. […] suo blog Maurizio Ratti, direttore creativo di Enfants Terribles ed ex consigliere Adci, invita il settore a […]

  2. Riccardo Pagani

    “…iniziare a ragionare secondo i costi orari. Le società di consulenza fanno così da tempo e le aziende non hanno mai avuto nulla da ridire. Lo stesso fanno le web agency. Certo, un cambiamento del genere richiederebbe un’organizzazione puntuale ed efficace da parte delle agenzie (elaborazione dei time sheet e il rispetto di determinati processi operativi) ma porterebbe innumerevoli vantaggi.”

    A mio parere credo che sia proprio questa la chiave di volta: trasformare le agenzie in aziende.

  3. […] motivazione dei collaboratori, la qualità dei fornitori, gli investimenti in ricerca e sviluppo. Come scrivevo in un post qualche mese fa, forse è giunto il momento di ragionare secondo i costi orari, così come fanno le […]

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