Rebus (5).

Sono figlio unico, ma sono cresciuto insieme a un cugino di 3 anni più grande. Ci somigliamo molto (siamo figli di gemelle), sia fisicamente sia caratterialmente. La differenza d’età però è sempre stata determinante. Fino ai 16 anni ho inanellato una serie infinita di sconfitte: lui mi batteva nella corsa, mi batteva a pallone, mi batteva nella tombola natalizia, mi batteva perfino a Subbuteo. Tutto questo per dire che ho avuto un’affettuosa educazione alla sconfitta e che, paradossalmente, per me è stato molto più difficile abituarmi alle vittorie (quando poi finalmente sono arrivate).

Ieri ho giocato un importante torneo di poker e ho perso in maniera clamorosa: nessun guizzo, nessuna giocata importante, nessun momento da ricordare al tavolo. Quattro ore e mezzo di card dead, come si dice in gergo, aggravate dal fatto che alla mia sinistra c’era un romanaccio che non ha smesso di parlarmi e toccarmi per tutto il tempo, anche dopo che ho messo le cuffie per fargli capire esplicitamente che mi aveva rotto i coglioni (è arrivato perfino ad alzarmi una cuffia da un’orecchio per dirmi un’assoluta banalità). Ma il fatto è che dopo il naturale momento di frustrazione (giocavo perdipiù sponsorizzato per la prima volta), grazie alla mia educazione, la sconfitta si è trasformata in un sentimento tiepido e familiare. Tanto che alla fine mi sono pure divertito e ho avuto l’occasione di conoscere meglio alcune persone davvero umane e simpatiche (Francesco e Martino).

Devo ringraziare mio cugino se ho imparato che anche nella sconfitta può esserci qualcosa di buono (oltreché perdonarlo per tutte le batoste che mi ha dato e per il fatto, quasi trascurabile, che abbia tentato di strozzarmi nella culla – vero). Devo ringraziarlo per avermi insegnato che nessuna sconfitta potrà mai sconfiggermi davvero.

winga

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  1. Steso?

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