P.S. (Pensieri Sparsi): virale, da aggettivo a sostantivo.

In questi giorni sui blog italiani di marketing e di pubblicità è partita un’interessante discussione sullo User Generetad Content e sul virale. Il dibattito più acceso e articolato si sta sviluppando sull’autorevole minimarketing (titolo del post: UCG, Viral marketing, spontaneità o stimolazione: le definizioni contano), ma in pratica se ne discute dappertutto: da relazioni pericolosamente pubbliche a doublebblog, dalle gattediviaplinio al blog dell’adci. Dato l’aspetto serio dell’argomento, e conoscendo invece il profilo cazzaro dell’audience di mizioblog, eviterei di affrontare la cosa se non fosse che tutto è partito proprio da qui, e cioè dal commento di Enrico il primo ottobre a un mio post. Finora ho espresso i miei pensieri commentando nei blog degli altri, ora sento l’esigenza di esprimere il mio pensiero qui a casa, in maniera articolata ed estesa (insomma, tutti coloro che si aspettano che oggi parli di figa rimarranno delusi, lo stesso vale per chi desidererebbe un post breve ;-).
Innanzitutto andrebbe spiegato cosa s’intende esattamente per User Generated Content, anche se la traduzione italiana è esaustiva: Contenuti Generati dagli Utenti. La cosa più importante però, è che l’UCG, come viene ormai abbreviato da tutti, è alla base del cosiddetto web 2.0 (cazzo, in una sola riga ho scritto due termini che mi provocano prurito: UCG e web 2.0). La sua esplosione in rete coincide con il successo di YouTube, che è appunto l’archetipo di tutti i siti UCG. Piccola parentesi: sono convinto che a questo punto Gluca non sarà d’accordo con me, perché secondo lui l’UCG raggruppa il fenomeno dei blog, dei forum, dei social network, eccetera, ma io sto ragionando di UCG applicato al marketing e, secondo me, non c’è dubbio che il suo boom sia principalmente da attribuire a YouTube. Tanto che do ragione a Enrico quando dice: “in sede di analisi andrebbero tenuti separati i contenuti spontanei da quelli richiesti e stimolati direttamente dalle aziende nell’ambito delle proprie attività di marketing”. Cioè: un conto è l’UCG dei blog e dei social network, un altro conto è quello generato dal marketing, tanto che andrebbero addirittura coniate due definizioni distinte. Tralasciando però il fenomeno dei contenuti spontanei, e concentrandoci sull’UCG esplorato dal marketing, va precisata una cosa: la novità dell’UCG non consiste nel fatto che gli utenti generino contenuti, bensì che spesso controllino addirittura il fenomeno. Mi spiego. Quanti stupidi concorsi off-line ci sono stati in passato in cui si invitavano le persone a mandare le proprie idee per le campagne pubblicitarie, o per concorsi cinematografici o di design? Anche quelli in fondo potrebbero definirsi UCG (ovvero contenuti generati dagli utenti). Ripeto, la novità dell’UCG è che non c’è più qualcuno che controlla il fenomeno al 100%. Ma allora perché il marketing, cioè le aziende, dovrebbe prendersi un rischio del genere? Semplice: perché il fenomeno sta diventando sempre più importante, e internet sta guadagnando terreno sui media classici. E’ per questo, e solo per questo, che il marketing si è fatto ingolosire e ha fatto nascere quello che sempre Gluca definirebbe UCG da “allevamento”. Uno dei casi più interessanti è stato senz’altro quello di Doritos, citato da mrwhite nel suo blog, io posso invece parlare brevemente di saveyourears, dato che è stato il primo esempio italiano di UCG e dato che, modestamente (il modestamente è naturalmente ironico) ha visto gli ET come protagonisti. Saveyourears è un progetto che abbiamo sviluppato per Sony per rispolverare un poco l’immagine del walkman e consisteva nel lancio di una community di stonati (potete avere tutti i dettagli cliccando nella sezione qui a destra dei Progetti). E’ stato indubbiamente un successo (considerate che nessuno dei progetti di UCG italiani realizzati dopo saveyourears ha raggiunto gli stessi risultati), ma la community che abbiamo creato dopo grandi sforzi si è comunque spenta lentamente quando abbiamo smesso di alimentarla. Posso dunque affermare per esperienza diretta che certi fenomeni di socializing, community e UCG possono essere generati benissimo dal marketing, ma non c’è brand al mondo che possa creare dal niente un fenomeno che coinvolga migliaia di persone e poi sperare che questo si perpetui all’infinito. Nemmeno Nike. Se ci pensate, è come se un’azienda decidesse di mandare uno spot in tv e sperasse di usufruire dei benefici della campagna per sempre. La realtà, invece, è che un’azienda che fa comunicazione, nel momento in cui smette di farla perde brand awareness e calano le vendite. In questi giorni molti hanno scritto che nell’UCG, così come nel virale, i fenomeni non dovrebbero partire “dall’alto”, e cioè non dovrebbero essere generati delle aziende ma piuttosto dagli user, in maniera democratica. Trovo che sia un bel modo di pensare alla comunicazione, ma la mia parte pragmatica e razionale mi suggerisce che come concetto è utopistico alla stregua di “figa per tutti” e “pace a tutti gli uomini di buona volontà”. E poi perché mai delle persone sane di mente dovrebbero appropriarsi in maniera democratica dei valori di un brand? A me spaventa molto più quest’ultima ipotesi che un patto cinico fra marca e consumatore: io marca ti faccio divertire un po’, tu in cambio ti ricordi di me quando vai al supermercato. Perdipiù anche questi fenomeni spontanei alla lunga si esauriscono. Mi viene in mente l’esempio di Mentos più Coca: tutti a fare esperimenti e a guardare i video per un paio di mesi, poi però basta… e d’altronde non è che si può guardare la coca zamplillare fuori da una bottiglia per tutta la vita.

Quest’ultimo esempio mi consente di passare dall’argomento UCG (a mio parere difficilmente percorribile dal marketing e già con il fiato corto) al virale, tema a me molto più caro. Scrive Gluca: “il vero marketing virale non può che nascere dal design innovativo o da una superiore e fantasmagorica capacità di soddisfare i clienti”. Non sono d’accordo. Secondo me l’affermazione non è espressa in modo esatto: chiarisco: è il successo di un brand che oggi, e soprattutto in rete, non può che nascere dal design innovativo e da una fantasmagorica capacità di soddisfare i clienti, e questo successo è decretato grazie allo sviluppo di un passa parola che ha sì le caratteristiche del virale, ma che non ha niente a che fare con il marketing. E’ lo stesso meccanismo che si produce, da sempre, quando vedi un bel film o leggi un bel libro e lo consigli agli amici. Ma se parliamo di aziende, quanti brand sono in grado di fare quello che dice Gluca (partendo dal marketing, intendo)? A me ne viene in mente una sola: Apple.

Lo so: stiamo discutendo di finezze, ma i dettagli sono importanti dato che ci troviamo di fronte a una rivoluzione epocale per la comunicazione. Sono importanti le definizioni, e sono importanti le parole che utilizziamo per descrivere i nuovi fenomeni. Ad esempio: sul termine virale si fa molta confusione. Alcuni parlano di virale ancora nella sua accezione di aggettivo, cioè esclusivamente come un contenuto che si espande a macchia d’olio, spontaneamente. Lo considerano solo come quelle cosa che si autogenera e che non ha bisogno di essere veicolata in nessun modo. Rispetto questo modo di pensare, ma bisogna essere consapevoli che in questo caso non si parla di comunicazione né di marketing, bensì si discute di sociologia. Perché questi fenomeni spontanei esistono, solo che in realtà ne nascono solo un paio all’anno. Tutti gli altri sono più o meno figli di attività che a seconda di come vengono fatte si possono definire seeding o blogosfera. Dire oggi che la viralità di un video (limitiamoci a quelli commerciali) dipende solo dal suo impatto (e ve lo dice un creativo che ama il virale e che ci si è applicato prima di molti altri), è come dire che uno spot bello può produrre benefici alla marca anche se non viene trasmesso in tv, oppure solo su Videolina alle 4 di notte. Ci sono fenomeni, è vero, che ogni tanto sovvertono le regole, ma sono rarissimi. Limitandoci all’Italia, per esempio, in questi ultimi anni c’è stato un solo caso di virale “puro” (così lo definirebbe Gluca): Rocco e la patatina. Dopo essere stato censurato dal Gran Giurì è stato caricato su YouTube ed è diventato un caso mediatico. Altri casi come Coloreria Italiana e AirVigorsol (lo spot più virale quest’anno in Italia), avevano comunque dietro attività più o meno intense di seeding. Questo non significa che non avessero una buona qualità virale, non credete? Significa solo che, oltre a essere originali e d’impatto, hanno potuto godere della professionalità e dell’esperienza di qualcuno che sapeva dove e come metterli in rete. A questo punto bisognerebbe affrontare l’argomento del seeding, parlare dell’etica di questa attività e di come bisognerebbe farlo. Ma questo post è fin troppo lungo. Dico solo che oggi nei media ci sono molti altri esempi più gravi ed eclatanti di contenuti veicolati in maniera poco trasparente. Come tutti quei finti-servizi dei tg o quegli articoli giornalistici che in realtà nascondono publiredazionali. A ben vedere, insomma, bisognerebbe fare un po’ di chiarezza sull’intero mondo della comunicazione. Per quanto riguarda invece l’aspetto professionale del seeding, va fatta una precisazione. Chi ha un blog con un traffico decente è sempre più tempestato da mail o da commenti esca che consigliano un video piuttosto che un sito. Questi sono spammer, non seeder. Un seeder serio è piuttosto uno che crea relazioni e agisce in maniera chiara e diretta grazie alla reputazione che si è creato in rete (viralavatar potrebbe darci una testimonianza a proposito).

Tornando al tema di virale come definizione, a mio parere è anacronistico considerarlo ancora nella sua accezione di aggettivo. Certo, si può dire “questa cosa è virale” o “ha una buona viralità”, ma si rischia che questa parola faccia la stessa fine del termine “creativo” e “creatività”. E cioè che, come una volta ha affermato Barbella, alla fine lo si svuoti di contenuto e non significhi più niente. Virale, quindi, oggi è soprattutto un sostantivo che vuol dire, nella maggior parte dei casi, un video caricato su internet, poi magari vuole anche dire un advergame caricato su internet o tutta un’altra serie di cose caricate su internet. Ma, soprattutto, è un contenuto che, spontaneamente o tramite tecniche ancora sperimentali, viene fatto circolare in rete il più possibile onde abbassare al massimo il suo costo contatto. A conferma di quello dico, vi do un’informazione piuttosto sorprendente: sapete qual è stato il video più visto in assoluto la settimana scorsa in rete? Sony Play-Doh. Mentre il terzo in assoluto è stato Dove Onsalught (fonte Video Viral Chart). Insomma: due commercial. E pensate che dietro questi due video, nonostante fossero di grande impatto, non ci sia stata nessuna attività di seeding o di blogosfera? Brutte notizie per i puri di cuore: oggi si possono comprare posizioni privilegiate su MySpace, DailyMotion e anche su YouTube… ovunque vi venga in mente insomma. La verità è che il media buying, dopo aver stravinto la battaglia contro la creatività sui mezzi classici, si sta muovendo con i suoi tentacoli anche in rete per estendere il suo predominio. In questa lotta, però, una speranza noi creativi e uomini di strategia ce l’abbiamo ancora, nonostante la potenza economica dei centri media e delle multinazionali. Perché il pubblico di internet non è passivo come quello della tv e dei giornali, ma è vorace di originalità e di intelligenza. Possiamo farcela, quindi, ma è una cosa che dipende da noi, basta che non ci comportiamo come bambini e pensiamo ingenuamente che sia sufficiente che un video sia d’impatto per essere virale, che basti caricarlo su YouTube e dirlo agli amici. Oggi un virale, per essere davvero virale, oltre a essere d’impatto e originale (poi sta diventando sempre più importante anche il livello esecutivo), deve essere pianificato in rete con intelligenza, e cioè deve affidarsi a professionisti del virale che sappiano utilizzare al meglio tutti gli strumenti del viral marketing. Non a caso in tutto il mondo sta crescendo l’importanza di associazioni come WOMMA e VBMA, mentre qui in Italia non sappiamo nemmeno della loro esistenza.

Comment (1)

  1. annapolverelli@me.com

    cosaa?? >:o io cercavo un “dizionario” per sapere l’aggettivo di divinità!!! *DONT_KNOW*

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