P.S (Pensieri Sparsi): chiauard e altri premi.

Appena due giorni fa ho scritto quanto fossero anacronistici i premi pubblicitari (anche se mi riferivo al viral) e, manco farlo apposta, mi arriva la notizia della nomination di un lavoro di Enfants Terribles (Sisal MatchPoint “Pallone”) al chiauard (Key Award, per i puristi). Per coerenza mi sento obbligato ad approfondire l’argomento dei premi. Partiamo intanto dalle mie emozioni al riguardo: quando mi hanno detto della nomination al chiaurad, mi sono eccitato come quando alcuni parenti di terzo grado mi hanno regalato il microscopio per la prima comunione: bello, mi sono detto, ma che cazzo me ne faccio? Infatti di premi pubblicitari in Italia ce ne sono così tanti che non solo si cannibalizzano l’un con l’altro, ma alla fine a un creativo non servono proprio a niente (se non come soprammobili). Non c’è un solo premio in Italia che possa cambiarti la carriera. All’estero sì: se vinci ad esempio un Leone al Festival di Cannes è probabile che ti arrivino delle offerte di lavoro interessanti. Ma in Italia se vinci una Targa Bellavista o un Mediastar non aspettarti grandi cose, al massimo un po’ di compassione. Gli unici due premi, secondo me, che da noi hanno un certo valore sono il Radiofestival e gli ADCI. Perché sono nati con le finalità giuste. Il primo per promuovere il mezzo radio, e quindi gratifica sempre i lavori davvero più interessanti (poi anche perché all’inizio, insieme all’antennina, regalava cose fantastiche tipo auto, moto, lingotti d’oro). Il secondo per promuovere l’eccellenza creativa e, nonostante i suoi difetti (un po’ troppa autoreferenzialità e il fatto che negli ultimi anni la maggior parte delle campagne che vedi nell’annual chissà perché non le vedi uscite da nessun’altra parte), è il riconoscimento più prestigioso per un creativo. Gli altri premi, invece, sarebbero da lasciar perdere. Nati con la finalità di promuovere le riviste di riferimento pagano sempre delle politiche un po’ inquinate (gratificare il maggior inserzionista della testata, una certa agenzia, il big spender del mercato pubblicitario…). Negli ultimi anni, poi, sono nati anche premi che hanno la velleità di gratificare non tanto la qualità creativa quanto l’efficienza della campagna. Risultato: premiano delle campagne brutte a caso e della motivazione non ci si capisce mai niente (l’ho scritto qualche giorno fa che i risultati è quasi impossibile analizzarli). Ad aggravare la questione dei premi nostrani c’è il fatto che non si salva nemmeno l’organizzazione delle premiazioni. Chi è stato alla cerimonia finale del Festival di Cannes sa quanto sia sobria ed elegante. Uno speaker cita le nominations, poi c’è la proiezione dello spot vincitore, i creativi salgono sul palco per ritirare il Leone e si fanno scattare due fotografie, dopodiché avanti il prossimo… così per una ventina di categorie. In un’oretta e mezzo tutto è finito: non hai tempo di annoiarti. Da noi, invece, ci sono premiazioni che durano anche 3 o 4 ore (ho visto creativi entrare stagisti e uscire senior). Ci sono premi che vogliono premiare tutti (e così, alla fine, è come se non premiassero nessuno), che annichiliscono le platee per il kitsch delle loro presentazioni e che si salvano solo grazie al buffet. Inoltre, sia per la scelta suicida di certe location sia per la parabola discendente della pubblicità italiana, si esce da queste premiazioni sempre con un po’ di tristezza nell’animo, con una sensazione da mare d’inverno. Come se la festa fosse finita da un pezzo e noi non ce ne fossimo ancora accorti. Come il ballo del “Gattopardo”. Senza la regia di Luchino Visconti, però.

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