25 anni terribili.

Enfants Terribles compie 25 anni. Venticinque anni che non sono stati facili, tutt’altro. Ecco, diciamo che facili è uno degli ultimi aggettivi a cui penserei per descriverli: sono stati anni in cui abbiamo superato 3 crisi economiche e una pandemia (spero), anni in cui abbiamo sopportato stoicamente la scelta di rimanere indipendenti. Ma sono stati anni importanti, in cui abbiamo lavorato per oltre 100 brand, portandone più di uno al successo.

Più che rendere questo anniversario autocelebrativo, ho pensato che potesse rappresentare un’ottima occasione per tirare un bilancio, per riflettere su com’è cambiato il mondo della comunicazione in questi 25 anni. Perché, nel caso in cui ve lo stiate domandando, il mondo della comunicazione italiana è cambiato. Molto.

Quattro anni fa ho scritto un pezzo che s’intitolava Una volta qui era tutto campagne, ed è stato uno dei post più letti in assoluto di mizioblog.com, ma analizzava soprattutto il grande cambiamento creativo, trattava di come il digital avesse trasformato la nostra professione.

Quello che voglio affrontare in questo post è un altro punto di vista, a partire dall’evoluzione delle agenzie di comunicazione. Perché se uno pensa alle sigle che c’erano venticinque anni fa in Italia, l’impressione è quella di essere stati proiettati in un futuro distopico.

Venticinque anni fa c’era una sola grande distinzione nel nostro paese: agenzie grandi che facevano sempre parte dei network e agenzie medie o piccole, alcune delle quali erano anche indipendenti. Le più piccole ed effervescenti di quest’ultima categoria venivano chiamate anche boutique creative, perché erano quelle che con la qualità della loro creatività riuscivano a supplire alle dimensioni ridotte.

Poi naturalmente c’erano le eccezioni: Armando Testa, ad esempio, era una grande agenzia italiana e indipendente. Tra le eccezioni c’erano anche le Balene, una realtà anfibia che si muoveva agilmente tra il frilensaggio alle agenzie e i clienti diretti.  Noi di Enfants Terribles, quando siamo nati, ci siamo ispirati proprio alle Balene.

Erano gli anni della Golden Age dei freelance, quelli in cui i gruppi di creativi si davano nomi esotici come se fossero delle rockband: Balene e Enfants Terribles, appunto.

La suddivisione tra grandi network, boutique creative e freelance è andata avanti per tanti anni. Ci sono state evoluzioni, come ad esempio quella dei gruppi freelance che si sono ingranditi e si sono trasformati in agenzie, ma tutto sommato lo scenario è rimasto cristallizzato per molti anni. Almeno finché l’avvento del digital ha fatto sì che il panorama diventasse molto più complesso. Perché il digital non ha introdotto solo nuove discipline e professioni, ma ha anche amplificato l’esigenza di una comunicazione sempre più cross-mediale.

E così le cosiddette boutique creative sono sparite.

Le altre agenzie indipendenti, per sopravvivere, hanno avuto bisogno di diventare sempre più grandi, questo per introdurre a scaffale molti più servizi di un tempo: se venticinque anni fa vendevano solo ATL, oggi offrono servizi che vanno dal branding fino ai social network.

Oggi ci sono un paio di agenzie indipendenti interessanti e di successo (non le cito per non deludere le altre che si reputano altrettanto interessanti e di successo) che hanno raggiunto una dimensione che quindici anni fa sarebbe stata definita media. Almeno un paio di queste, oggi, si battono ad armi pari contro i network, producendo creatività ancor più interessanti. Per queste realtà indipendenti ingrandirsi è stata una necessità perché ultimamente nelle aziende è tornato di moda un concetto ricorrente e in voga specialmente negli anni 80: il servizio completo.

Chi non è riuscito a ingrandirsi da solo lo ha fatto tramite acquisizioni e fusioni. Non so se ci avete fatto caso ma negli ultimi due anni è stato un susseguirsi di nuove realtà che, arrivando dai campi più svariati e periferici della comunicazione, si sono unite in gruppi in modo di avere le phisique du rôle per giocare nel campo della comunicazione a trecentosessanta gradi. La ragione è semplice: se oggi non sei abbastanza grande non sei invitato alle gare più importanti e quindi non arrivi ai budget più remunerativi.

C’è anche un altro motivo per cui le agenzie hanno rinunciato alla specializzazione: se con l’ATL o con i progetti particolarmente creativi puoi costruirti la reputation di cui hai bisogno per essere preso in considerazione dalle aziende, è soprattutto con il digital che hai quella continuità di lavoro che ti consente di mantenere la struttura e programmare gli investimenti. 

Cosa penso di questi gruppi? È presto per dare un giudizio su queste nuove realtà, ma per ora il mio personale sentimento è tiepido: ritengo che la cultura di comunicazione non si inventi dall’oggi al domani. E sono scettico sui gruppi, sempre più numerosi, che danno più valore ai numeri (fatturati e addetti) piuttosto che ai progetti. Sono old school: per me il valore di un’agenzia di pubblicità lo si evince da quello che fa, e da come lo fa. Non da quello che vanta in termini di PR.

Nel grande gruppo delle agenzie indipendenti ci metto anche noi di Enfants Terribles che, nonostante negli anni siamo cresciuti molto, non abbiamo comunque raggiunto la dimensione delle agenzie di cui ho parlato prima. Insieme a un’altra decina di sigle, altrettanto interessanti, restiamo nell’ambito della categoria Underdogs.

Qual è il futuro degli Underdogs? Credo che non sarà quello di crescere autonomamente, né quello di fondersi o di farsi acquisire. Parliamo pur sempre di realtà orgogliose della propria indipendenza, quindi un’opzione percorribile potrebbe essere quella di realizzare partnership con attori simili e complementari. Il problema è che nel nostro settore fare partnership è piuttosto difficile. Significa trovare punti in comune con qualcuno che, oltre ad avere una cultura d’agenzia assolutamente originale e differente dalla tua, è orgoglioso e indipendente quanto te.

Un altro gruppo importante è costituito dalle Agenzie Social. Queste agenzie, nate con il boom dei social network, stanno cercando di virare sulla comunicazione tout court. Un processo evolutivo che potrebbe risultate più semplice rispetto a quello di tutti gli altri perché aiutato da una percezione di sempre maggiore importanza della Content Strategy. È il comparto che potrebbe svilupparsi più velocemente nei prossimi anni.

Poi ci sono le Consultancies, annunciate e temute da tutto il settore da parecchi anni. Le Consultancies sono un po’ come la fine del mondo: sai che possono arrivare da un momento all’altro, che quando arriveranno davvero spazzeranno via tutto, ma intanto non sono ancora arrivate. Veramente. Cioè non hanno ancora fatto sul serio. E non arriveranno oggi ma nemmeno domani. Arriveranno un giorno. Forse. Quando? La verità è che le Consultancies potrebbero avere più interesse a usare la comunicazione come un passepartout per arrivare a business consulenziali più redditizi. Resta il fatto che finora hanno fatto sul serio solo negli Sati Uniti con l’acquisizione di Droga5.

Nella mappa di posizionamento immaginaria della comunicazione, vicino alle Consultancies ci sono le realtà la cui mission si traduce con la parola Digital Transformation. Arrivano dai settori più disparati ma puntano lucidamente il digital, anche se poi non disdegnano di cimentarsi anche nel comparto della comunicazione più classica per offrire anche loro un servizio di comunicazione completo e integrato. Al contrario delle Consultancies sono molto attive ma, personalmente, devo ancora comprendere la loro naturale evoluzione.

Arriviamo quindi agli esemplari più antichi, praticamente i dinosauri della comunicazione: le agenzie dei network. In Italia possiamo suddividerle in due categorie: Publicis e le altre.

Publicis è riuscita in una cosa che in Italia non era mai riuscita a nessun’altra sigla prima d’ora: diventare un hub mondiale di eccellenza creativa. Le altre, be’, continuano a fare quello che hanno sempre fatto: raccogliere business qui (in Italia) per distribuire dividendi e investimenti là (dove hanno sede i network o dove i mercati sono in maggiore crescita).

Come sono cambiati i network in questi ultimi 25 anni? Non credo di sconvolgere nessuno se affermo che sono le realtà cambiate di meno. Hanno tolto i nomi dei morti dalle sigle, ad esempio, e li hanno sostituiti con acronimi sempre più complicati. Hanno fuso, strizzato e tagliato come fanno sempre quando devono far tornare i conti, o quando lo scenario cambia. Mentre per quanto riguarda il modello, si sono divertiti a cambiare l’organizzazione come nel gioco del tris: prima hanno fatto i silos verticali, poi quelli orizzontali, infine quelli diagonali. E così di seguito n un loop infinito. Riprendendo la metafora dei dinosauri, diciamo che i grandi network non si sono ancora estinti solo perché hanno cambiato alimentazione e make-up.

Ok, lo ammetto, non ho una grande simpatia per i network e il motivo è che a mio parere hanno fatto gravi danni alla pubblicità italiana (lo spiego proprio nel post Una volta qui erano tutte campagne). Perdipiù non capisco perché molti brand continuino a rivolgersi a strutture che sono state concepite con modelli ottocenteschi, e che non hanno interesse a investire nel nostro settore, né nelle loro risorse. Strutture che oggi non danno nessun valore aggiunto al mercato (Publicis esclusa).

Dopodiché c’è Martin Sorrell, che a inizio anno ha annunciato che presto sbarcherà anche da noi. L’arrivo di questo piccolo grande tycoon potrebbe risultare interessante perché, dopo aver rivoluzionato il panorama globale della comunicazione più di trent’anni fa con il lancio di WPP, oggi si è reinventato: ha rinunciato a presidiare la comunicazione classica, per lui in decadenza, e si è focalizzato sui contenuti, sui dati e sul digital media (MediaMonks e MightyHive sono solo due delle società della sua nuova shell company: S4 Capital).

Per concludere la carrellata degli attori che oggi bazzicano il nostro settore, c’è infine il popolo sempre più numeroso dei freelance, la cui professione è molto diversa rispetto a quella che facevo io un tempo. Venticinque anni fa noi freelance eravamo pochissimi. E immaginate i vantaggi: c’era lavoro per tutti, molto ben retribuito, soprattutto nei periodi successivi alle crisi, quelli in cui le agenzie di pubblicità si destrutturavano e dovevano affrontare punte di lavoro. E spesso si veniva chiamati per il nome che ci si era fatti sul mercato, non solo per risolvere le urgenze improvvise. Per questo ci davamo nomi come se fossimo stati delle rock band.

Al contrario, fare il freelance oggi è un mestiere più difficile e stressante: si compete da una parte contro le agenzie più piccole o di provincia, e dall’altra contro personaggi improvvisati che vantano il titolo di comunicatori solo per aver frequentato qualche corso online di poche ore.

È palese: in uno scenario variegato come quello di oggi, con una platea di attori molto più numerosa rispetto a 25 anni fa, la competizione è diventata ardua e crudele. E le conseguenze sono facili da immaginare.

L’offerta di comunicazione è talmente ampia che il nostro lavoro ha perso reputazione, ma soprattutto ha perso quel valore consulenziale che aveva in origine. Perché devo darti credito quando posso chiedere ad altri cento professionisti come te, di qualsiasi estrazione e con qualsiasi esperienza? Perché devo ascoltare quello che mi dici se prima o poi trovo qualcuno che mi dice esattamente quello che che penso io? Inoltre, se prima o poi trovo qualcuno che mi dice esattamente quello che penso io, significa che ho ragione: non ho certo bisogno di un consulente ma piuttosto di qualcuno che esegua quello che ho in mente.

Stesso identico discorso per l’aspetto economico. Perché devo darti i soldi che mi chiedi se prima o poi trovo qualcuno che mi chiede la metà di quello che pretendi tu, e magari mi dice pure quello che voglio sentirmi dire?

Il progresso tecnologico, la complessità quotidiana e la pandemia hanno acuito ulteriormente questa crisi. Una volta le presentazioni al cliente erano un rito: entravi nelle sale riunioni delle aziende con lo stesso spirito con cui si entra in chiesa, e loro ti guardavano e ti ascoltavano affascinati, con lo stesso rispetto con cui si guarda l’officiante. C’erano molti che non vedevano l’ora che l’agenzia venisse a presentare in azienda perché quel momento era vissuto come una specie di show, una parentesi di evasione per dimenticare il grigiore dei sell-in e sell-out. Perché un tempo si raccontavano storie, non solo dinamiche o activation. E un tempo il carisma pesava tantissimo nelle presentazioni, così come contavano la competenza e la capacità di persuasione. Purtroppo non è più così, tanto che una frase che oggi si sente ripetere sempre più spesso è: “mandami pure la presentazione per mail!”

La liturgia della presentazione contava eccome per il risultato del nostro lavoro: più dedichi tempo e importanza a una cosa, più questa ha valore. Presentare in video call sarà pure comodo ma filtra le emozioni. E rende più difficile l’esposizione: per un creativo equivale alla performance di un artista che non sente gli applausi o le risate del pubblico. 

Il fatto che le presentazioni abbiano sempre meno importanza lo si capisce anche da un altro fenomeno che negli ultimi tempi sta diventando preoccupante: i tempi dei feedback. Trovare tempo per decidere è ormai giudicato più importante di quello necessario per produrre idee e strategie. E se questa cosa vi sembra normale, sappiate che non lo era affatto venticinque anni fa.

In un mondo in cui le strategie e le presentazioni contano sempre meno sono anche cambiate le gare. Una volta i pitch si vincevano con la forza delle idee, adesso non più. Un po’ perché oggi i brief sono così complessi e sfaccettati che trovare idee brillanti su tutti i cinquantasette touchpoint è impossibile. Un po’ perché secondo l’attuale scuola di pensiero contano di più altre cose come la pianificazione (questo in realtà già da tempo), la targetizzazione (nonostante il data driven continui a restare misterioso e vacuo come il santo graal), l’organizzazione delle strutture e la loro capacità di offrire gamme infinite di servizi.

Anche per questo i pitch stanno raggiungendo livelli burocratici degni di apparati ministeriali. Venticinque anni fa c’era il brief e dopo un mese la presentazione. Oggi c’è la firma dell’NDA, la presentazione delle credenziali, la longlist, la shortlist e infine il chemistry meeting. Se sei sopravvissuto a tutte queste fasi, allora e solo allora c’è il brief, poi la sessione Q&A, infine la presentazione. Finita? Magari. Perché dopo vengono scelte un paio di agenzie a cui passare i feedback, infine c’è il temutissimo incontro con l’Ufficio Acquisti.

L’Ufficio Acquisti merita un capitolo a parte. Un capitolo un po’ fantozziano. Capita che, la maggior parte delle volte, gente che fino a qualche anno prima era abituata a comprare penne, carta e consumabili, oggi compri creatività alla stessa stregua di penne, carta e consumabili. Le agenzie sono costrette a compilare documenti excel che richiedono la laurea in ingegneria quantistica, ma quando hanno trovato l’algoritmo per far rendere uno stagista come un David Droga o un John Hegarty qualsiasi, gli Uffici Acquisti pretendono di abbattere i costi come vogliono loro. Così, simpaticamente alla c@**o.

Insomma, se una volta le gare si facevano per avere punti di vista diversi rispetto a quello espresso dall’agenzia uscente, oggi si fanno soprattutto per avere conferma delle proprie convinzioni. E mentre venticinque anni fa un’idea forte poteva far vincere anche un’agenzia sfavorita in partenza, adesso i criteri di scelta sono talmente numerosi, complessi e soggettivi che spesso i pitch vengono aggiudicati ancor prima del passaggio del brief. Per avvalorare scelte che si avevano già in mente in partenza. L’impressione, infatti, è che oggi per vincere una gara conti molto più la reputation dell’agenzia (aspetto che andrebbe pure bene se non fosse che i pitch richiedono alle agenzie un dispendio di energia incredibile).  

Se le idee contano sempre di meno, ha acquisito sempre più importanza l’execution. Fateci caso: da quant’è che non vedete una pubblicità con un’idea davvero potente? Una cosa tipo The Sculptor di Peugeot 206, per intenderci. Tanto che possiamo tranquillamente affermare che oggi il 90% dei film di qualità è costruito a vignette, o come si diceva una volta da slice of lives. Anche perché l’insight ha preso il posto dell’idea nei brain storming, e i rubamatic hanno decretato l’estinzione degli storyboard e degli script, strumenti meno laccati, certo, ma in grado di esprimere molto meglio l’originalità delle idee.

Un’ultimo grande cambiamento di questi ultimi anni riguarda i protagonisti delle comunicazioni. Venticinque anni fa le pubblicità con i testimonial esistevano ma erano in netta minoranza. Con il passare del tempo la percentuale di brand che hanno scelto persone famose per rappresentarli è aumentata sempre di più finché oggi, con l’avvento del fenomeno Influencers, sembra impossibile trovare un singolo brand che rinunci a ingaggiare persone che abbiano una forte presenza sui social. E qui, a mio parere, la cosa è sfuggita un po’ di mano. Perché va bene mettersi nella mani di una Chiara Ferragni che, nonostante promuova sette cose diverse al giorno, riesce a dare un valore aggiunto al brand, ma questa folle deriva di investire sempre di più su micro, mini e nano influencer che senso ha?

Nelle scorse settimane ho letto un’analisi di Diego Fontana su Facebook, una delle poche cose interessanti che si possono trovare ancora dentro i social network. In estrema sintesi: per moltissimi anni i brand, gli enti e le istituzioni hanno avuto l’esclusiva della comunicazione, perché per comunicare erano necessari investimenti importanti, ma poi è arrivato il web 2.0 che ha sconvolto tutto e ha dato la possibilità di comunicare anche alle persone comuni. Influencer e content creator hanno capito questo potenziale prima degli altri e sono diventati brand di loro stessi, applicando strategie di comunicazione che una volta erano di dominio esclusivo dei brand, ritagliandosi così fette di pubblico sempre più grandi.

I brand, per continuare a catturare l’attenzione di quelle persone che oggi trovano più interessanti le conversazioni sui social delle pubblicità, sono scesi dal piedistallo e hanno iniziato a conversare con la gente usando i temi comuni e il loro stesso linguaggio. Ma così facendo, scendendo cioè dal piedistallo, hanno perso l’autorevolezza che avevano un tempo e inoltre hanno sentito l’esigenza di delegare la loro comunicazione a persone capaci di creare conversazioni : influencer e content creator appunto.

La conclusione di Diego Fontana è altrettanto interessante. Una volta percepivamo i brand come dei, e questo era rassicurante perché come semplici esseri umani abbiamo l’esigenza di affidarci sempre a qualcuno o a un qualcosa di superiore, ma questa loro discesa tra i mortali ha tolto a loro l’Autorictas e a noi le più elementari sicurezze, tanto che se oggi come esseri umani siamo pronti a smitizzare tutto, anche come consumatori siamo diventati scettici, volubili, fluidi e confusi.

Ecco l’impietosa istantanea dopo 25 anni: influencers che per la gente contano più dei brand, agenzie che contano sempre meno per le aziende, consumatori che bombardati da migliaia di messaggi e confusi da incessanti conversazioni faticano a credere in un vaccino, figuriamoci in campagna pubblicitaria…

In questo scenario a dir poco apocalittico per la comunicazione, sono comunque ottimista, perché ho la convinzione che abbiamo di fronte una grande opportunità: ritornare alle Idee.

Quelle Idee che, pur tanto bistrattate in quest’ultimo periodo, sono la cosa più preziosa che abbiamo a disposizione. Perché rappresentano quella magia su cui è fondato il nostro lavoro di creativi pubblicitari. Lunga vita all’old school insomma: torniamo a cercare Idee forti, potenti, le uniche in grado di raccontare storie originali, le uniche capaci di emozionare le persone come facevamo un tempo, venticinque anni fa.

E attenzione! Non è affatto una questione di nostalgia, ma la scelta più intelligente a nostra disposizione: recuperiamo la cosa che sappiamo fare meglio, rinnoviamo il motivo per cui abbiamo scelto questo mestiere. Perché solo le Idee, quelle autentiche e originali, avranno la forza di distinguersi in questa marmellata di conversazioni, solo loro potranno restituirci rilevanza come creativi e ridare autorevolezza ai brand che seguiamo. E non c’è nessun dato, nessuna ricerca, nessun insight e neppure nessun influencer in grado di trovare quel tipo di Idee, perché la ricerca di quelle Idee rappresenta il nucleo più intimo della nostra professione, la passione incrollabile a cui noi copy e art abbiamo dedicato la vita.

P.S.

Qualche mese fa è successa una cosa imprevedibile: enfants terribles ha preso un cliente della moda. In venticinque anni non era mai successo. E, se mi guardo intorno, non è mai successo nemmeno alle altre agenzie italiane, perché moda e advertising sono sempre stati territori limitrofi ma separati.

Realizzo solo adesso, rileggendo questo post, che il motivo per cui ci hanno scelto è molto probabilmente perché non abbiamo presentato loro una semplice un’execution, ma delle idee. E questo rafforza la mia convinzione: a prescindere dal settore , tutti i brand oggi hanno bisogno di innalzarsi da questa assurda Babele di conversazioni e, forse, stanno iniziando a riflettere sul fatto che possono farlo solo tramite la forza delle Idee.  

Comments (15)

  1. Meraviglioso. Rapita dalle tue idee.

  2. Bellissima sintesi, al pari della prima di 4 anni fa.

    In fin dei conti molto di questo complesso scenario deriva da una maggiore democratizzazione e frammentazione della società globale che porta benefici e problemi un po’ ovunque. È il frutto di un capovolgimento del punto di vista sul mondo che prima andava dall’alto verso il basso e ora va sempre più dal basso verso l’alto e che porta con sé disintermediazione e crisi delle autorictates (politica, brand, giornalismo professionale e via dicendo).

    Le cause? Sicuramente la tecnologia e l’interconnessione costante di tutto con tutto.

    I rischi? La grillinizzazione di ogni aspetto della società e la crisi delle competenze verticali; l’attaccarsi a una visibilità fine a sé stessa attuata attraverso la morbosa volontà di inserirsi nei vissuti quotidiani delle persone pur di elemosinarne l’attenzione (Instant e RTM forzati ne sono un sintomo evidente); la dispersione del valore di marca e del posizionamento strategico in favore di tattiche a breve termine; il dominio dell’insight e dell’execution a sfavore delle big ideas e del coraggio di sfidare bolle di opinioni e algoritmi (come giustamente accennavi); l’agenda pubblica e pubblicitaria dettata dagli influencer, ovvero dalla democratizzazione della figura del vecchio testimonial con tutti i pericoli che questo si porta dietro.

    I benefici? Una maggiore attenzione ai grandi temi civili come la sostenibilità e l’inclusione; una maggiore attenzione alle esigenze delle persone; la possibilità di sperimentare linguaggi ibridi, la multidisciplinarietà; una maggiore capacità di adattamento ai cambiamenti.

    Insomma, un bel casino nel bene e nel male.
    Perdona il pippone sociologico ma è colpa del tuo stimolante post 😉

    Rodolfo

  3. Ne sono convinta anch’io: il ritorno delle idee è l’unica strada per fare la differenza, sia per la riabilitazione dei brand, sia per la riqualificazione dei professionisti della comunicazione. Gran bell’articolo, grazie per l’interessante panoramica!

    • mizioblog

      Grazie a te per aver dedicato tutto questo tempo alla lettura di un articolo che è interessante ma anche lungo.

  4. Quanta verità nelle tue parole, la vedo ogni giorno (da freelance) ripetersi all’infinito; un rituale che si è rovesciato e che tu hai fotografato bene, descrivendo il rapporto attuale proposto dai clienti, quelli che cercano qualcuno che gli dia ragione, che costi poco e che “la presentazione mandamela via mail”.
    Hai dipinto il quadro perfetto della realtà; io come te continuo a credere che saranno le idee a salvarci e a farci andare verso la selezione naturale della professionalità.
    Grazie!

  5. Che te lo dico a fare… sono anni che lo penso e lo dico, spero di essere stato profeta in patria.

  6. Non male, analisi profonda. Il ritorno alle idee, però, lo vedo difficoltoso, lontano. In breve: la maggior parte dei clienti le idee non le vuole.

    • mizioblog

      Vero, i clienti adesso le idee non le vogliono, ma penso che sia l’unico modo per far sopravvivere il nostro mestiere.

  7. angelo ghidotti

    Perché devo ascoltare quello che mi dici se prima o poi trovo qualcuno che mi dice esattamente quello che che penso io?

    Ecco. Detto tutto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *